[…]un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette
(Hölderlin, Iperione)
Vai via nero. Dopo un’epigrafe che cita il sommo poeta romantico potevate aspettarvi un avvio lancia in resta con disquisizioni letterarie intorno alle nuove abluzioni oniriche di Sergio Padovani. E invece no. “Vai via nero” è una licenza che mi son preso dall’ultima fatica musicale della band inglese Bauhaus, che sempre cara fu ai darkettini d’ogni razza e d’ogni età. Una licenza, perché naturalmente il titolo originale del succitato disco è Go Away White. Questa serie inedita di Sergio Padovani nasce per partenogenesi da un abbandono: il nero in favore del bianco. Lungo addio di cui già assaggiammo un bocconcino nella produzione precedente, dove un lago di nebbia informava soggetti che emergevano da un fondo nero mai innocente. Ciò, non per dire che l’artista modenese stia ora attraversando il deserto, o il periodo blu, o il periodo rosa, come un Picasso qualsiasi. Ma per enfatizzare la possibilità dell’esser cattivi fino a farvi sanguinare gli occhi, senza con ciò stesso abusare del buio della notte senza fine. Ciononostante, i riferimenti alla foscoliana imago della fatal quiete e alla mitica Euterpe (lemma volgare per dire: la musica) permangono. E anche in dose massiva.
La produzione artistica di Sergio Padovani e’ una composizione semplice e breve, ma carica di suggestioni (presentatemi un artista il cui lavoro sia scevro di suggestioni e io infilerò la testa in un bacile colmo d’acqua). Però. Lo scarto materiale qui consiste nel fatto che questa opera al bianco risulta soprattutto edificata a partire da un suono portante che si rinnova ad libitum come un basso continuo, quel basso continuo con cui il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer confrontava la materia inorganica, infima oggettivazione dell’intima essenza del mondo: la Volontà – di vita.
Ci ritorneremo, sulla materia inorganica. Il suono portante qui è il bianco. E il lavoro di Sergio Padovani è ora marcatamente narrativo. Non che prima fosse privo di descrizioni definite. Ma allora, in quella che per comodità potremmo chiamare l’opera al nero,la narrazione soprassedeva al mistero (ed essendo un mistero, non ve lo possiamo svelare). Ora l’iconicità scompare e solo il titolo resocontativo di ogni opera rende ragione dell’ineffabile. E’ la perversione eccellentissimadi un’ordalia combinatoria e cruenta, polluzioni chimiche, attraversamenti nella filogenesi e nell’ontogenesi di soggetti dal volto eburneo pervaso dal belletto bianco della biacca, come fossero all’interno di quinte teatrali intenti – o coartati – alla recita del teatro della crudeltà dal canone inverso (perché qui non si sacrifica nessun elemento tetragono alla rappresentazione), sprigionando emozioni vibranti e gesti violenti, in composizioni che complessivamente strizzano l’occhio alla malìa dell’Aktionismus viennese, con cui Sergio Padovani condivide un comun sentire che pur prescindendo dalle esperienze stricto sensu performative e dalle note connotazioni sociopolitiche, vi si armonizza tuttavia per quelle connessioni associative che terminano esattamente nel canto del corpo e nei relativi esiti estetici, quale che sia il mezzo espressivo del suo utilizzo. Sergio Padovani inventa e non crea, né testimonia una verità quale che essa sia: gli basta che l’apparentemente spaventevole sia null’altro che l’espressione diretta della fallacia insita nella famigerata diade natura/cultura, dove la raffigurazione di elementi arborei infami scongiura l’ingannevole bellezza di una natura che, diabolicamente, divide anziché unire (del resto διαβάλλω, etimo greco del latino diabŏlus, significa “divido”, “trafiggo”). Il risultato è la riedizione, nel linguaggio visuale della pittura, di un corpo senza organi, luogo filosofico che la coppia Deleuze/Guattari costruì proprio a partire dalle suggestioni del teatro della crudeltà di artaudiana memoria, materia inorganica carica di vita silente, non ordinata a un fine che non sia appunto la sua stessa potenzialità eccedente: il desiderio, il rimosso degli abissi dell’inconscio, la volontà metamorfica di esseri in polluzione chimica proclivi a una destinazione che li trasforma nell’eccedenza di sè, esseri alla deriva Dentro sconfinati dies irae sospinti verso il raggiungimento di una contraddittoria essenza completa, unica e composta, corpi senza organizzazione e quindi liberi e fluttuanti nel bianco scabro e deflorato da vestigia di bitume (il nero, in Padovani, è uno stigma che non va mai via veramente). Riconoscendo tutte le attenuanti a quella che è un’interpretazione, cioè un apporto metateorico possibile fra altri egualmente possibili, potremmo quindi leggere questa serie inedita di Sergio Padovani alla luce di un’ermeneutica dell’alienazione dell’io, una decodificazione drammatica e densa di quel pathos che soltanto in una dimensione idealmente teatrale trova la propria ragion d’essere più acconcia, interpretata da una piccola musica notturna che come un basso continuo macula di bianca gravità il canto di corpi in eterno divenire.