Vorrei solo coccolare i tuoi orrori perché sono così amabilmente simili ai miei.”

Scrissi questo verso in un periodo in cui la pittura di Sergio mi era ancora sconosciuta, o meglio, la conoscevo così come si sa di appartenere ad un determinato scenario immaginifico che inconsapevolmente o no, si va cercando, vagando nei limbi creativi del mondo, augurandosi di trovare una strada che ci riporti a casa quando l’intorno non corrisponde ad una familiarità che ci faccia sentire giusti, accettatati, voluti così come siamo, sgraziati, imperfetti, fallibili, infedeli, guasti, infidi e piccoli… piccoli… creature che per una ragione o per l’altra finiscono sempre per sentirsi incongrue ed insensate. Perennemente afflitte dalla ricerca della felicità. Senza sapere che felici, poi, lo dicono anche le creature di Sergio, saremo imperdonabili.

Accade che i simili si attraggono… e l’universo (nera grazia) di Sergio Padovani, il suo silenzio, la sua voragine illuminata, le sue ardenti fecondazioni, le sue amputate timidezze, mi hanno trovata.

I suoi personaggi macabri, sbavati, immobili in quella fissità invitante mi hanno presa per mano, perché non ho paura di guardare in quegli occhi neri e scintillanti come scarafaggi, mi si rivolgono in una lingua che conosco bene e mi commuovono letteralmente: quegli occhi brillano una supplica, una preghiera, una pudica richiesta di comprensione che scavalchi coraggiosamente le forme traviate e vilipese di corpi maltrattati da una sorte a noi oscura.

Chi può dire, infatti, quale sia la storia di ognuno di loro? Essi sono stati catturati e sospesi in un vuoto compresso, sottratti da ogni paesaggio che possa tradire un’origine per darne un’identificazione certa. Chi può dire, infatti, se siano umani o no? Se lo sono, non corrispondono all’ideale rassicurante nel quale vorremmo riconoscerci. Se di una disumanità li si può accusare, è la violenza che ci fanno non andando a nascondersi in quei fondali neri che inghiottono la loro storia, non dissolvendosi nei biancori ghiacciati che come un’esplosione atomica hanno disintegrato il paesaggio lasciandoli sciancati e derelitti superstiti. Sembra che essi ci vengano incontro, vittime di chissà quale mutazione genetica, di quale scriteriato esperimento, dicendoci che dobbiamo prenderci cura di loro, adesso. Ci dicono che dobbiamo assumerci delle responsabilità.

E allora ecco che l’opera di Sergio assurge a ruolo di peso supremo, siamo chiamati tutti in causa,

dobbiamo tutti riuscire a commuoverci delle reciproche mostruosità, dobbiamo tutti coccolare l’orrore dell’altro, riconoscere noi stessi nello scombussolamento dei sensi che le pennellate di questi quadri provocano. Nessun soggetto può essere tralasciato o ignorato senza incappare nella colpa dell’emarginazione, della non salvezza, della non partecipazione al dramma in atto in ogni singola tela.

La delirante disumanità di questa umanità ha qualcosa di osceno, di turpe ed inguardabile, e allo stesso tempo, scioccante, regna la sensazione di leggiadra sospensione, di attesa ineludibile che attanaglia quei corpi fluttuanti aggrediti da un’esasperazione temporale infinita, attesa che sregola e disgrega, muta organismi innestandoli a qualcosa d’inorganico, propaggini fittizie prendono a crescere laddove le amputazioni dolorose devono in qualche maniera rimarginare, un corpo distrutto dal dolore deve ritrovare una doverosa funzionalità, seppure assurda, impensabile e  grottesca.

Quasi impossibile configurare con chiarezza l’origine di quella disfunzionalità tanto plastica quanto straziante, identificare la natura esatta delle sensazioni che sembrano staccarsi dalla tela come un respiro faticoso, reticente, in cerca di una bocca accogliente in cui reintrodursi insieme all’ossigeno per dilagare nel corpo dell’osservatore. Ossigeno che in qualche maniera viene dato ai personaggi, e a noi che spiamo sconcertati e soggiogati il suo mondo, dall’atmosfera di parole che Sergio Padovani riesce sapientemente a creare tramite il titolo di ogni singolo quadro, evocativo di  una suggestione già prima che l’osservatore si accinga a volerla cogliere con gli occhi. Raramente riuscirà ad afferrare quel senso ancestrale che ha mosso la mano del pittore perché la poetica dei titoli, giacché di questo si tratta, pure e semplici gocce di poesia, non intende spiegare l’immagine ma arricchirla ulteriormente andando persino al di là di quello che le creature immortalate riescono a trasmetterci. Così le opere di Sergio hanno il grande pregio di fondere il deforme  con il  sublime perché l’immagine ha sempre una corrispondenza lirica che trasfigura inevitabilmente i personaggi, alla fine, in truci e sgangherate divinità assise sul trono dell’aura poetica eternante. E da lassù, ci scrutano, infinitamente belli e atroci, a volte forse hanno anche pietà di noi… perché loro, nella catarsi dell’essere nostri simulacri, hanno capito…essi già sanno che siamo tutti destinati a sopravvivere al dolore, se siamo abbastanza forti, se siamo disposti a diventare abbastanza brutti. Abbrutiti. Estasiati dal piacere della violazione che facciamo a noi stessi quando vorremmo arrenderci.

Il difetto, quel grano fastidioso di bruttezza è l’unica grandiosa bellezza che ci caratterizza, è il marchio di fabbrica mancante. La ribellione all’unica matrice.

La bellezza è feroce, non crediate di potere accostarvi ad essa impunemente. Le creature di Sergio lo sanno bene…esse sono le sopravvissute, le coraggiose, le incoscienti e temerarie che hanno osato allungare la mano per tentare di coglierla. E chiunque abbia mai fatto altrettanto sa che quegli occhi colmi di stupore nero sono i propri.

 

 

Morena Oro conduce da qualche anno un programma radiofonico settimanale su Radionuova in Blu, storica radio maceratese, all’interno del quale ha modo di condividere con gli ascoltatori, nella sua maniera irriverente ed estroversa, tutto ciò che da sempre l’appassiona: la musica. la cultura, la letteratura, l’arte, curiosità di ogni genere e, naturalmente, la poesia.

Esordisce in campo letterario nel 2009 con la silloge intitolata Anima Nuda, nel 2011 dà alle stampe la seconda raccolta poetica, Affetti Collaterali.

Nel gennaio 2013 esce Autopsia del mio Demone, che lei considera la tappa conclusiva di un viaggio sinestetico dentro le tre A riassuntive della propria irrisolvibile complessità: Anima, Affetti, Autopsia.

 

 

 

 

http://www.facebook.com/morena.oro

 

https://www.facebook.com/groups/108158811021/

 

https://www.facebook.com/pages/Dolce-far-niente-Radio-Nuova-In-Blu/178549198831724