PRIMA DELLA POLVERE

SERGIO PADOVANI ALLA WANNABEE GALLERY con:
L’APOCALISSE TI DONA.

E’ una serata di fine inverno che succede alcune giornate di sole, quelle giornate che fanno credere d’esser già in primavera, tuttavia l’aria fuori dall’auto è fredda, il clima è ventoso ed uggioso. Così, senza alcun tentativo d’esser invitante, mi ri-accoglie la grigia Milano, mi addentro nella sconosciuta via Massimiano e rapidamente vengo proiettata in una realtà esteticamente opposta a quella appena attraversata e conosciuta.
Via Massimiano è la culla degli artisti, vi sono numerose gallerie, generose di spazio e luce, site in edifici che riportano all’architettura contemporanea nord-europea i quali luoghi del vivere si sposano perfettamente con quelli del contesto urbano. Un’altra faccia di Milano, fuori dalla congestione di sempre.
Incantata dalle opere degli artisti, che osservo curiosa dal di fuori attraverso le ampie vetrate, cerco la Wannabee Gallery, per affrettarmi al vernissage de “L’apocalisse ti dona”, l’ultima mostra personale di SERGIO PADOVANI.

La Wannabee Gallery è un oggetto prezioso, celato, da scoprire, si nasconde aldilà di un
cancello-paratia di timbro plumbeo, è uno spazio bianco custodito tra un’essenziale giardino di tenera erba verde e la leggerezza di un’architettura lineare che ha il colore della calce patinata.
Finalmente scorgo, alla mia destra, oltre un grande vetro “La deriva bianca”, imperante dipinto che come un faro di notte in mezzo al mare indica le coordinate a chi è un po’ sperduto: “Sergio Padovani è qui”.

Rivivo, come accade ogni volta che incrocio un’opera di Padovani, una sensazione di orrore, di orrore attraente.

Ogni immagine di Padovani ha un effetto collante sullo sguardo, uno sguardo che non ha il coraggio di uscire dal perimetro della tela, come si stesse fissando nel buio una figura che terrorizza e proprio perché terrorizza, non la si può perdere d’occhio, la si deve controllare, trattenendo il respiro, supplicando intimamente che non si avvicini.

E’ questo il preludio tagliente della mostra “L’apocalisse ti dona”, che mette in guardia ogni visitatore, mostrando la sostanza acerba della quale è intrisa.

“La deriva Bianca” incurante, porge agli occhi tre figure spettrali.
Il terrore che si prova da subito va lentamente affievolendo, per cedere spazio alla pena, alla compassione per quei corpi disgraziati che l’abitano e così lo sguardo, che prima era atterrito, ora si sposta curioso in qua e là all’interno dell’opera, ma con delicatezza, lentamente, per rispettare silente la sofferenza degli esseri dannati che in essa si dimenano in una sorta di agonia perpetua …
Con l’amaro in bocca s’indaga su dove inizino e finiscano alcune funi che tengono sospesi, brandendoli dalle estremità superiori, due dei corpi rappresentati; il dolore s’addensa quando si scoprono di questi gli arti superiori mutilati, dei quali la stessa carne diviene l’elemento di sospensione; è forse una metafora, oppure una verità servita spietatamente, per indicare che da noi stessi nasce il dolore e il condizionamento della nostra fine.
Impotenti si assiste al delirio: l’essere a destra penzolante si ancora con le gambe a quello sospeso al centro della tela, ciò rimanda all’istinto di sopravvivenza e contemporaneamente alla condivisione del dolore con un proprio simile, per avere l’illusione che la sofferenza sia più lieve.
Non si svela il ruolo del piccolo figurante a sinistra, che sembra il carnefice dei due appesi, dei quali può decidere se rincarare le sofferenze o meno a seconda di quanto tende le corde, abbassando o alzando la leva del meccanismo di tortura che ha a disposizione; ma questi sembra contemporaneamente il boia di se stesso, che stia personalmente provvedendo a tritare il proprio corpo all’interno dell’oscuro ingranaggio …

Mi allontano da “La deriva Bianca” spostando l’attenzione sulle altre opere, i toni di grigio, di bianco, di nero e del bruno bitume, dettano le cromie delle quali il mondo di Padovani è asperso …

Scendo vacillante alcuni gradini, piccole tele della stessa dimensione, appese alla parete di fianco, introducono come un leitmotiv alla stanza che accoglie i dipinti più imponenti di Padovani.
Queste piccole “tele guida” sono ingannevoli, contengono immagini che sembrano più grandi della loro reale dimensione, ciò deriva dal violento impatto emotivo che scaturiscono e al quale obbligano. Vi è una sorta di annullamento dello sfondo, nessun volume o geometria, esso si presenta come una massa lattiginosa impastata, rivoltata, ricoperta da velature o materia emersa istintivamente, una “struttura” spaziale smembrata, impalpabile, si tratta di uno sfondo utilitario in cui immergere o far fluire i corpi informi dei figuranti. Esseri simili ad apparizioni si mostrano agli occhi, giungendo direttamente da una dimensione di confine posta tra il purgatorio e l’inferno.

Tra questi lavori, nel “Il lunedì è un requiem” un bambino d’altri tempi ci fissa inespressivo, con le pupille spente e asimmetriche, sembra adagiato ed immortalato in una di quelle foto post mortem di fine ‘800, lo strazio fisico, a differenza di buona parte dei soggetti di Padovani, gli è stato risparmiato, anche le sue vesti non hanno subito lacerazioni e la postura raccolta trasferisce all’idea di una preghiera in suffragio dei defunti.

“Il bianco è carezzevole”, altra tela minuta: del protagonista inerme e appeso/sospeso possiamo vedere solamente il capo di trequarti che riporta cuciture, anche lui ci fissa, crucciato e ammutolito, il resto del suo corpo è inglobato in un grande bozzolo macchiato e di consistenza gommosa, non ci si aspetta che divenga prima o poi una farfalla, quanto più il pasto di un’aracnide gigante.

Ancora dello stesso ciclo: “Sei aurora e dirupo”, “Ridiamo ancora delle dimenticanze vespertine”, “Siamo rari fiori Folk”… ad ognuno di essi ci si ferma silenziosi, come si faceva da bambini in chiesa, quando la mamma ci obbligava alla contemplazione dei passi della Via Crucis.

L’itinerario della mostra prosegue con una tela, il cui titolo ne giustifica la mole:
“Annunciazione, la grande!”.
Una giovane ragazza veste gli abiti neri di una papessa, la tiara ornata da una croce frontale bianca le copre gli occhi, ostacolandone la vista. Ella siede all’aperto, su di una tetra poltrona usurata, si fonde col buio della selva alle spalle, poggiando su di un terreno lutulento dal quale emerge evanescente un coccodrillo. La presenza del rettile potrebbe trovare giustificazione in una passione dell’autore per i bestiari, o nel suo significato di “animale” ipocrita o ancora in una valenza medievale, nella quale le sue fauci ricordavano l’ingresso agli inferi.
(La polisemia, propria dei simboli di Padovani, consente numerose interpretazioni. Interpretazioni che alla fine convergono tutte ad un’unica verità).
Sia la poltrona, che la grande testa di un papero giocattolo posta a fianco della piccola Papessa, evidenziano la coesione di elementi anacronistici all’interno dello stesso quadro, come lo sono anche le gorgiere indossate da personaggi che troviamo in altre tele del Padovani.
Gli elementi anacronistici vi sono per privare il tempo dal suo aspetto cronologico, per ricondurre ogni anima nella stessa dimensione delle altre, con lo stesso trattamento, con lo stesso giudizio.
“Annunciazione, la grande!” non fa pensare all’Arcangelo Gabriele che si prostra ai piedi della giovane Maria, non vi è alcun tentativo in questo senso, il messaggio che trapela sembra essere un altro: alla piccola Papessa, ancora legata al mondo dei giocattoli, viene pre-annunciata la fine, l’imminente passaggio della Grande Mietitrice.

Con un peso nello stomaco ci si volta verso la tela più grande dell’intera mostra “Tutto maledettamente sbagliato”, un quadrato di due metri per due, che almeno apparentemente, alleggerisce l’animo per una manciata di secondi.

“Tutto maledettamente sbagliato” è di gusto circense, demarca una reietta sfera sociale da sideshow statunitense dei primi del ‘900, quelle “attrazioni” che noi meglio conosciamo come “Fenomeni da Baraccone”.
Un cinghiale di dimensioni pantagrueliche è sovrastato da una sorta di parallelepipedo che si estende ricoprendone dorso e testa. Questa grande scatola irregolare è decorata da stelle geometriche di sapore americano ed è fissata al corpo del mammifero con delle cinte tese.
In groppa all’assieme, sette misere anime deformi attraggono chi vuol essere l’astante di turno, non
si ribellano alla loro triste popolarità, l’abitudine ha superato il dolore già da lungo tempo.

Ruoto la testa in cerca di un temporaneo punto neutro, privo da qualsiasi forma di emozionalità, ma incrocio “La notte è fatta per sanguinare” e come ipnotizzata mi avvicino a scrutarla.
Una scena quasi buia. Un flebile baluginio consente di intravedere una tinozza, sopra la quale un altro corpo sospeso, mutilato, privo di tutti gli arti, simile ad un adulto in uno stato corporeo ancora embrionale, sta riversando copiosamente il proprio sangue.
Il senso di abbandono commuove, innescando l’empatia per questa creatura sconosciuta, lontana da ogni forma di immaginazione e l’impotenza, quella di noi osservatori, affligge.

Tra di noi c’è chi sorride e scambia parole con qualcuno, altri sorbiscono un aperitivo, la voce di Marlene Dietrich di sottofondo ci culla, cantando qualcosa di ovattato, ma i dipinti che ci attorniano, non concedono di svagarsi troppo e di sottrarre loro attenzione.
Il quadro “La luna”, ci vuole come parte attiva di un congegno umano-meccanico, quali comparse in un set, a fiancheggiare i suoi tre protagonisti, per renderci della stessa materia informe e argentea.
“Noi siamo la città fantasma e voi siete i lupi”: una zona palustre notturna in cui albergano un tapiro, una scimmia, corpi assemblati di uomini con bestie, tizi poco raccomandabili e dei bagnanti. E’ una scena di convivenza pacifica tra creature straordinarie, custodi e guardiani della loro terra che preservano dall’oltraggio di noi canidi. La versione stravolta e dark di quella che a colori potrebbe essere una scena dell’impressionismo francese lungo la Grande Jatte o di una pausa campestre come Le Déjeuner sur l’Herbe.

Risalgo i gradini sino al piano superiore dove finisce la mostra e la trilogia degli “Enjambement” riserva, in termini di bellezza e delicatezza, la perla inattesa dell’esposizione “Rivoluzione, cominci stanotte”: una giovane indossa le vesti da ballerina (Padovani ha reso con maestria la leggerezza del tulle) è stesa supina, ci osserva, il corpo affonda leggermente sulla superficie di latte denso e morbido in cui poggia, il tutù viene sollevato da un gancio posto ad un’estremità.
Tutto ricorda gli attimi che precedono una relazione intima tra due individui: l’attesa e l’immobilità mista a paura e curiosità. Ma il gancio sul tutù destabilizza l’armonia del momento facendo sembrare la ragazzina una vittima impietrita di fronte alla perversione.

Osservo altre tele sino a giungere all’opera finale, la sinossi, colei che ha plasmato la mostra col proprio nome “L’apocalisse ti dona”:
E’ una donna senza età, a braccia conserte attende, è imbavagliata, ha le gambe ricucite e bullonate, le vesti e parti del corpo si disfano nello sfondo come esplose … è l’inizio dell’Apocalisse.

In questa grande mostra si fondono l’esperienza del vissuto e la percezione della sofferenza. Padovani le trasmette con l’espressività violenta dei corpi che dipinge. I volti delle sue figure sono invece inespressivi, stanchi di lottare e privi della forza per emettere un lamento, divenuti catatonici, i muscoli facciali sono ormai spenti, assomigliano a quelli di individui lobotomizzati o vicini alla perdita di coscienza.
La nitidezza di questi sentimenti ha un trasporto magistrale sulla tela, che risponde ai dettami di un fluire interiore leale, spontaneo, in bianco e nero.

… vien da pensare a Platone, alle sue riflessioni, quelle sull’ “anima che ha fatto cattivo uso della ragione e che per questo motivo è condannata a passare di corpo in corpo”.

Un delirio perpetuo per una redenzione rimandata ad un lontano futuro, quello dell’APOCALISSE.

Lascio la mostra e Milano. Fuori è buio, piove a dirotto, fa ancora più freddo; sorrido perché il clima è in perfetta sintonia con il mondo di Sergio Padovani.

Elena Greggio. Aprile 2011
(www.elenagreggio-images.net)