di Paola Milicia.

Nel mondo enigmatico di Sergio Padovani (Modena, 1972), la corporeità si impone come la certezza che governa da sempre l’ispirazione. Una corporeità che volutamente appare nelle sue forme più grottesche ed esasperate, antinomiche, nelle distorsioni e nell’ambiguità deformanti, per insistere su quel generale stato di turbamento di boschiana e bruegheliana memoria, che è anche allegoria e “messa in scena”.

Impostata su una studiata sproporzione degli elementi costitutivi, e su una babelica costruzione della scena che l’accomuna a certe miniature tre-quattrocentesche (e perché non allo still life) la rappresentazione di Padovani punta verso il massimo inscenamento della sofferenza che si possa infliggere al corpo umano e animale: la sua spettacolarizzazione.

La tortura si afferma come una indispensabile visibilità e ostentazione “teatrale”: l’anatomia umana sembra perdere le sue giuste proporzioni morali e psicologiche sotto la lente del dolore che, inflitto con una prassi liturgica (esoterica e massonica), si impone con un significato simbolico e una funzione più ampi. I corpi sono anzitutto s-velati e nudi, zoomorfici, trafitti da uncini, acefali, afallici, privi di volto, amorfi, innaturalmente capovolti, immersi in atmosfere lugubri, e poi riconsegnati alla coscienza dell’osservatore come fossero strumenti di una pedagogia del dolore che è insieme anche un cupo godimento e fascinazione.

La “morte” (nelle sue formulazioni possibili: della carne, del peccato, del desiderio) invocata anche quando i corpi non sono più direttamente prossimi a un supplizio ma attendono una “conversione” (ovvero: un’alchimia, una Vorchadumia appunto) come in “Stelle aperte” (2020), non è più naturale ma si fa ancora più orrifica, e dunque fascinosa, ove il contributo degli oggetti e dei marchingegni sposta, per forza di cose, l’attenzione al pensiero premeditato, a quella progettuale inventiva mortifica e mortificante che si adopera alla creazione e all’induzione della sofferenza della specie. In quanto “cosa” viva, la carne diventa un materiale da sottoporre al controllo e alla manipolazione della violenza organizzata, nel tentativo di privarla della bellezza, della salute, della giovinezza, anche a tal punto da renderla “macchinica”, parte integrante di un dispositivo di sadica soddisfazione (L’acceleratore Hindenburg, 2013; Nessuna vera separazione, 2017, Rimedio all’angelo della morte, Supplicanti tolemaici). Nonché horror turbativo dei confini ammissibili tra umano, animale e macchinico: l’horror sfoca le distinzioni, crea il caos, le dis-ambiguità.

Il corpo torturato, dunque, non è più sul punto di essere privato della vita, ma diventa l’oggetto di trauma, di meditazione, di fascino, e più ancora, l’oggetto del desiderio, come è valso per buona parte della letteratura fantastica e realista del XIX secolo, da Edgar A. Poe Victor Hugo Charles Nadier, o addirittura, di un compiacimento maligno (Schadenfreu)

Qualunque sia la lettura, è fuori discussione che il supplizio a cui ricorre Padovani è l’artificio necessario perché il meccanismo teatrale funzioni, la “messa in scena” di un istante che altro non è una pulsione narcisistica che mette in connessione chi guarda e chi è guardato. I soggetti mozzati, para-umani e metallizzati – santi, martiri, madonne, streghe, mostri, bestie; meglio ancora spectrum nell’accezione di Roland Barthes dove è immediata la relazione tra i personaggi a ciò che è e fa spettacolo, oltre a essere vagamente spettrali e spaventosi – non sono concentrati sul dolore, ma a mantenere lo sguardo dentro un immaginario obiettivo esterno: implorano di essere guardati e “immortalati”, nella perpetua sensazione di dover partecipare non anche alla loro tortura, ma al loro orgasmo narcisistico (I Folli abitano il Sacro mentre le notti infieriscono, Voi, Prima della Compossibilità, la Fornicazione).

Gli elementi si dispongono tali che sembrano non accostati ma accozzati: ed è questa caratteristica a rinsaldare la sensazione che tutto sia pretestuoso, artificioso, dunque parodico. La scena conserva nel suo complesso un senso addirittura ironico, lì dove gli spectrum – che ci guardano per essere guardati – appaiono incredibilmente obbedienti, in uno stato di apparente tranquillità e di attesa come fossero mannequin: è proprio l’eccesso di indulgenza, ovvero, l’insistenza di certe pose ferme, per quanto reiterate – che conferiscono alla visione una buona dose di dubbio- a fungere, in un certo senso, da stabilizzatore visivo, operando un’attenuazione emotiva da parte di chi osserva la scena. Il contrappeso della parodia ci aiuta a superare quell’iniziale momento di turbamento.

Anche il paesaggio naturale e architettonico, ove presente, risponde a una coerenza narrativa che impone agli oggetti una discriminazione visiva e concettuale dai significati riposti. Intanto, contribuiscono a saturare lo sguardo, ma ancor di più, alla perfetta “cementificazione” con il personaggio-spectrum: sono, infatti, architetture o alberi che danno un senso di “soglia”, di nascondiglio non perfettamente escogitato dove i fantasmi e le visioni possono apparire nella loro ambiguità. Il vedo-non-vedo di certe pellicole horror viene ripreso da Padovani attraverso un’ambientazione surreale e anch’essa mozzata.

Di fronte all’opera di Padovani è, dunque, urtato il senso, ma punito lo sguardo: una orgia di elementi perturbanti che si dissolvono, quando ne ravvediamo l’artificio, il “gioco” dell’eccesso che ricorda le regie pasoliniane, al limite dell’inverosimile. La parodia, intesa come mise en abïme della realtà, diventa il termine pacificatore dell’ambiguità scenica e psicologica.
Paola Milicia

L’intervista

[Paola Milicia]: Appare chiaro la centralità del corpo nella tua ricerca artistica. Ma qual è l’atteggiamento con cui interpretarlo? Corpo come luogo di condanna e denuncia dei peccati, di disprezzo verso la corruzione dell’umano essere, o come celebrazione di una diffusa sensualità della carne, anche eroticamente parlando?

[Sergio Padovani]: Credo entrambe. Osservo queste due interpretazioni alternarsi e congiungersi in sequenze entusiasmanti nella materia che amo, la pittura, da sempre.
Il punto nodale è l’espiazione, che, in qualche modo, rappresenta la celebrazione dell’uomo che si confronta con il sacro; quello stesso sacro che “spoglia” il corpo umano dai peccati e lo rende puro, immacolato, perfetto di fronte al pubblico giudizio e, di conseguenza, attraente. Anche, perfino, eroticamente.
Senza scomodare gli oggi perennemente citati (fino alla noia), Caravaggio e Rembrandt, il panorama dell’estetica della carne, della bellezza espositiva legata al tormento, alla condanna e, finanche alla tortura, rappresenta un ingranaggio artistico ininterrompibile: il Marsia in attesa dello scorticamento ritratto da Rottmayr ci mostra le carni frementi al supplizio come ad un amplesso, il “martirio di Sant’Agata” di Sebastiano del Piombo sembra cogliere la santa nel momento in cui rivela agli aguzzini che le torturano i seni: “i dolori sono la mia delizia”, trasformando immediatamente la turpe atmosfera in estasi, il San Lorenzo di Stomer appare livido nella carne levigata, pulsante e palpabile, i memento mori di Ligozzi ammiccano alla nostra morbosa curiosità per lo sfacelo del corpo, la simbiosi morte-erotismo di Schiele ci sconvolge ma ancor più ci seduce, e si potrebbe continuare, percorrendo in lungo ed in largo tutta la storia dell’Arte.
Il mio approccio è sicuramente meno diretto e più subliminale nel suo significato: la carne ci rappresenta ambiguamente e può essere sacra e sensuale, corrotta e volgare, blasfema e santa nello stesso momento. È questo il meccanismo per il quale i personaggi che ritraggo hanno corpi “sovrasessuati” come asessuati, appartengono contemporaneamente alla gioventù ed alla vecchiaia, al femminino ed al masculino in un continuo rimescolamento delle certezze.
Non mi interessa rappresentare la vicenda di un ruolo, ma la vicenda di un essere che, in qualche maniera, alla sua maniera, vive nel suo momento contemporaneo.
Riassumendo, il corpo umano è, per me, sicuramente un luogo, e, come tale, è contenitore di condanna e resurrezione, precipizio ed estasi, miseria e sublime.

Ho parlato di scene per insistere su quella parentela con il teatro, il palcoscenico, il set di un film in cui gli attori sono tali perché esiste uno spettatore…A chi osserva la tua opera, restituisci un teatro instabile che si compie con l’ausilio di uno spettatore. Mi sbaglio?

Non ti sbagli. E, giustamente, hai parlato di “spettacolarizzazione”. Ho sicuramente un profondo debito col cinema muto “début du siècle”,in particolar modo quello degli albori francesi e degli espressionismi tedeschi, che mi aiuta a spiegare questa tua intuizione.
In queste pellicole sperimentali, tutto, mancando la parola, veniva recitato con maggior forza espressiva, il trucco era più carico, le movenze più aperte, i sentimenti urlati dalle bocche afone degli attori, le scenografie estremizzate dalle luci e dalle ombre.
Lo spettatore doveva riempire i vuoti attraverso la sua sensibilità, il suo bagaglio culturale e la sua visione della scena davanti a lui “spettacolarizzata”, appunto.
Una mia pittura ha i medesimi linguaggi: è una frammentazione di archetipi, influenze, ragionamenti, visioni, debolezze, studi e maniacalità che tengono, forse maldestramente, incollato insieme un universo, anzi, meglio considerarlo un “mondo cannibale” di sé stesso, che però, pervicacemente e perentoriamente, richiede lo sguardo di chi si addentra per osservarlo. Lo richiede perché così trova una spiegazione della sua esistenza, un improvviso nutrimento assistito, una vita vera e propria pronta a sfidare qualunque sorte.
Ecco quindi che nasce l’esibizione, il teatro, che ha la pretesa di voler essere simultaneamente tragedia greca, sacra rappresentazione, Grand Guignol, commedia umanistica e teatro dell’assurdo, a bramare se non il consenso, la semplice manifestazione di un interesse.
Naturalmente sono tutte maschere sotto le quali scorre quella natura che, se avremo la pazienza di cercare, capiremo che ci somiglia.

Le scene sono pervase da un eccesso di sguardo. C’è ovunque un abuso del limite consentito a cui ho cercato di dare una spiegazione. C’è uno scopo preciso?

Lo scopo è sicuramente quello di non creare comunicazioni univoche ma plurime, variegate ed interpretabili.
Da fruitore di Arte, cerco sempre di intravedere non una sola ragione dell’opera, ma lo spettro totale delle manifestazioni che riesco a “legittimare” come volute dall’autore, e non solo mie interpretazioni. Quando mi “scontro” (è sicuramente più adatta come definizione quando osservo) con un capolavoro assoluto, mi è facile trovare una sorta di narrazione invisibile ma potentissima, che struttura l’immagine rappresentata in qualcosa di inarrivabile ed unico, quasi fosse più un “suono”. Diventa per me quindi sostanziale come cardine per la crescita artistica la ricerca di questa narrazione, che desidero esplicitare (si parlava prima di teatro) per far capire immediatamente che la lettura del quadro non sarà mai una ed una sola.
Ci sono più sguardi, più luci, più ombre, più letture di un corpo umano, più conoscenze in contatto od attrito tra loro a svolgere la funzione di “accordatori” di questo ipotetico, desiderato suono.

C’è chi ha scritto che la tua pittura ricorda la fotografia di Joel Peter Witkin. E non a torto. Quel guardare verso l’obiettivo di molti tuoi personaggi rimanda, se non direttamente al fotografo statunitense, alla fotografia in generale. Qual è il rapporto che hai con la fotografia d’autore e quanto senti di esserne influenzato?

Dal punto di vista pratico del lavoro non ne sono per niente influenzato. Il mio approccio alla tela bianca prende a piene mani unicamente dalla mia testa com’è in quel particolare momento, senza disegni o immagini che mi guidino prima. Di solito ad influenzarmi sono di più le parole, lette od ascoltate anche per caso.
In verità, il mio rapporto con la fotografia è molto sensibile agli intenti dell’autore. Ad esempio, non amo l’invasione di fotografia artistica da social, post avvento digitale, come non amo la pittura che si limita a riprodurre la foto, anche se fa parte del processo artistico dell’autore.
Sicuramente invece, l’osservazione dei lavori di artisti come Witkin, Anton Josef Trčka, Carjat, Arbus o, soprattutto, dei fotografi di cronaca nera che, spesso, hanno un’autorialità artistica non considerata (forse neppure da molti di loro) o di guerra (Battaglia, Capa, Florea, Savin, etc..) sono stati fonte preziosa di apprendimento di particolari atmosfere, vuoi per la tecnica utilizzata, vuoi semplicemente per il soggetto che avevano ritratto.
Un’influenza sedimentale che, probabilmente, si confronta con i miei personaggi e, tramite il loro guardare, diviene residuo dei tempi che viviamo, ammassati sotto lo sguardo perenne di un obiettivo.

Ho notato che la scelta dei titoli ricade spesso su frasi lunghe, o grecismi, parole in disuso e difficilmente captabili. Ci vuoi spiegare come nasce un tuo titolo?

Il titolo di un’opera è per me davvero importantissimo. Non potrò mai capire veramente i “senza titolo”.
Penso, per esempio, alla completezza con cui Paul Delvaux ha dotato un suo quadro, chiamandolo “Tutte le luci” e stabilendo la sinergia perfetta, a mio parere, tra immagine e parola.
Per quanto mi riguarda non c’è, in effetti, un desiderio “wertmülleriano”quando produco titoli abbastanza lunghi, ma semplicemente lo stesso procedimento che ha lo svolgimento di una mia pittura: l’accumulo di elementi.
Spesso identifico in modo del tutto casuale o, all’opposto, dalle mie ricerche, una serie di vocaboli che credo possano avere una relazione con la narrazione che sto dipanando (anche a me stesso), le assimilo, in alcuni casi le lego talmente al dipinto da farmi cambiare direzione in corso d’opera, altre volte si smarriscono strada facendo.
Alla fine di questo procedimento rimane una matrice del pensiero di base che ha prodotto l’inizio dell’opera unitamente alle sensazioni che provo dopo aver terminato la stessa. Se questo “lemma” contiene il quadro e viceversa, è il titolo giusto.

Passa il testimone”: chiamo così l’ultima domanda perché mi piacerebbe che sia tu a indicarci un artista vivente da intervistare. E se ci puoi anticipare le ragioni.

Ken Currie. Mi colpì, molti anni fa, un suo quadro, nella costruzione esecutiva e nel titolo. “unfamiliar reflection”. Da li, osservare la sua forma come essere umano, assolutamente tranquillizzante, ed associarla alla sua progressione creativa, che certamente di tranquillizzante non ha nulla, muove in me sicuramente il desiderio di un approfondimento.
Essendo in continuo studio del precedente, sono assolutamente un distratto osservatore della situazione presente (Currie è una delle pochissime eccezioni e… tutte fuori confine).
Tra gli italiani faccio il nome di un collega che conosco personalmente, che rispetto molto e che ritengo davvero molto bravo: Giovanni Gasparro.

arte.go.it(link):
“I dolori sono la mia delizia”. Riflessioni attorno al “mondo cannibale” di Sergio Padovani – Arte.Go.it