“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: sulla locandina di un concerto del 2016 Diamanda Galas ficca i suoi, di occhi, nell’abisso dell’inconscio da un angolo della giungla che Sergio Padovani abita a Modena. Se fosse ancora tra noi e scrivesse un racconto intitolato Visita a Padovani, lo scrittore e giornalista e critico d’arte Giorgio Soavi (padre del regista Michele Soavi) probabilmente parlerebbe proprio di una giungla, come quando nel suo racconto dedicato all’amico pittore Mino Maccari (in Tenero è il mostro, Rizzoli 1977, poi in Il sogno continua, Rizzoli 1982 e Guardando, Einaudi 1991) scrisse di un torchio “soffocato come un Nautilus ai limiti della giungla marina”.
Soavi descriverebbe con la stessa parola lo studio di Padovani, dove un cavalletto nero, costruito da lui, sta fisso e sussistente “soffocato come un Nautilus ai limiti della giungla marina”, appunto, in una congerie proteiforme e magmatica di creature animali in tassidermia, vasetti in formaldeide, libri, scritte sul muro e fogli appesi e chiavi e croci: le “soaviniane” escrescenze arboree, l’arredo costitutivo dello studio di Padovani.
Lui, i quadri, li fa in realtà più spesso a parete, perché il cavalletto nero lo usa per le opere di più piccole dimensioni, ma il climax da profondità è lo stesso: un basso continuo, come diceva Schopenhauer, risuona idealmente e per suggestione, mentre le note vibrano dalle “cose” che popolano lo studio, accordatori pronti per realizzare l’opera, la sinfonia, il quadro in via di apparizione.
Gli elementi costitutivi sono tutti dei meccanismi individuati e singoli che risuonano, come un contrappunto in musica, rispetto alle idee, pensieri e sentimenti e visioni, simili ad argonauti che brulicano in quell’etere che è la “noosfera” di Padovani, la “terra del pensiero” che si fa azione, anzi pittura. Perché è la “cosalità” delle “cose”, qui, a produrre un suono come un’intro, un opening-to, un preludio al quadro: danno una direzione, sono la freccia che indica il senso dell’opera che sarà, se sarà.
Comunicazione visuale ma anche verbale: i libri, i tanti libri, “cose” fra le “cose” nello studio di Padovani, rappresentano una seconda giungla da scoprire di volta in volta. È lì che cerca, è lì che trova, il senso e la giustificazione di quella “vittima sacrificale” che è la tela. Perché quella di Padovani non è una pittura drammatica, ma piuttosto una ricerca continua. O una scelta continua, come una questione di fede. È il suo stile: la volontà di rinnovarsi sempre, ad ogni passaggio, ad ogni periodo. Ma restando fedele a se stesso, anche. C’è un insegnamento, che a ben vedere è anche un insegnamento per la vita: artisticamente, pittoricamente, non pare aver paura di affrontare l’ignoto, il totalmente-diverso-da.
Il nuovo è ogni volta un altro quadro, laddove “il nuovo” è sia il soggetto che il supporto che il “vestito”, cioè il colore (e il non-colore). In questa produzione d’arte in costante rinnovamento la poetica (ma quanto poco ci piace questo termine abusatissimo che pure noi stiamo abusando) è l’unica cosa che non cambia, perché è essa stessa il cambiamento continuo. Variano i soggetti (paesaggi à la Padovani ma anche azzeramento degli stessi), variano le misure (opere di quattro metri e opere di sei centimetri), variano i supporti (tele ma anche rame, vetro, carta, tavole di legno e legno a pala d’altare apribile e chiudibile) e varia quello che abbiamo chiamato “il vestito”, cioè il colore (ora domina il nero, ora c’è il colore). Per il tempo in cui rimane nello studio, ogni quadro ha la sua storia ed è proprio quella storia che lui-esso ha “voluto”: se volessimo ricorrere alle autoascrizioni in prima persona, potremmo dire che ogni quadro deve “capire” le sue stesse condizioni di possibilità.
Un lavoro cadenzato da variazioni,
come uno spartito musicale
Tu chiamalo “schematismo trascendentale”, se vuoi scimmiottare Immanuel Kant. Il modo di lavorare di Padovani è cadenzato, come uno spartito, da variazioni: un range che funziona come il variatore di fase nella disciplina della meccanica e che ci piace vedere come corrispettivo in quelle “cose” che nel suo studio operano come meccanismi, accordatori, operatori preliminari della sinfonia in gestazione. Una ricerca continua che, sì, “pesca nel torbido”, per dirla à la popolana, ma “pesca nel torbido” allo stesso modo in cui lo facevano gli Scapigliati italiani o i Simbolisti francesi, anarchici che svelavano il torbido anche nell’amore. Chissà, forse anche riguardo a Padovani Giorgio Soavi avrebbe scritto: “segue o precede gli altri verso baratri che si chiudono al suo passaggio”.
Emanuele Beluffi
ARTE IN magazine
n.2 aprile/maggio 2021
Link all’articolo:
Sergio Padovani – Si aprano le danze macabre – ArteIN