Tommaso d’Aquino affermava che le immagini di arte sacra sono “figure di cose corporee” e che “il raggio della Divina Rivelazione non viene distrutto dalle figure sensibili con le quali viene velato”. Oggi molti artisti cercano di confrontarsi con l’arte sacra senza tenere presente gli elementi principali che le danno vita, producendo opere che non hanno l’elemento teologico spirituale, ma sono solo un’effimera se non irriverente e inconsapevole raffigurazione del sacro.
Non è certamente il caso di Sergio Padovani, artista modenese, il quale per diversi anni è stato musicista nella sperimentazione e nella ricerca. Autodidatta, nel 2011 è stato selezionato per la 54° Biennale di Venezia, Padiglione Italia, sezione regionale Torino e nel 2016 per la Biennale del Disegno di Rimini. Nel corso del suo percorso artistico ha vinto il Premio Arte, il Premio Arte Laguna, il Premio Wannabee e il Premio Yicca. Le sue opere sono presenti in importanti collezioni in Italia e in Europa e in permanenza presso il Museo Diocesano d’Arte Sacra di Imola, al MACS di Catania, alla Galleria Estense di Modena, al Museo Ruggi d’Aragona.
Osservando le opere di Padovani si ha la sensazione di essere davanti ai fotogrammi di Faust, film premiato al Festival di Venezia nel 2011 di Sokurov che riflette sull’errare umano. Difatti Padovani, autore del Polittico dei vulnerabilimiserabili, raffigura presenze ingombranti ed esibizioniste che si fanno spazio per affermarsi anche nel mercato dell’arte. Esse si muovono con difficoltà in una danza macabra (con forse in sottofondo La ballata degli impiccati di De André) che somiglia a un viaggio picaresco in cui siamo trascinati, coinvolti in un perpetuum mobile, in una sintesi visionaria di grande impatto, come si può notare nell’opera La casa che arde viva, da considerarsi una sorta di manifesto della nostra epoca dove l’esaltazione di formule vuote come “I tempi cambiano” regna sovrana, infatti non si sa cosa stia bruciando, cosa ci sia di prezioso in quella casa, che è il nostro mondo, la nostra società, ma tutti sentono puzza di bruciato.
L’umanità di Padovani è spesso surreale e bizzarra, un insieme di rovine da visitare, addentrandosi nei simboli, nella corposità dei colori. Padovani fonde tradizione e innovazione, temi iconografici tardo-medievali e realtà contemporanea, esplicando la trascendenza come sentimento umano, avvalendosi di materiali quali resina e bitume per mostrare come epoche lontane possano toccarsi.
Annalina Grasso: Le sue opere per lo più richiamano alla mente l’arte medievale nel suo aspetto più oscuro e macabro. Cosa la affascina di più dell’arte medievale?
Sergio Padovani:Lo spirito contemporaneo e la sua funzionalità. L’arte medioevale è stata uno specchio reale dei principali avvenimenti religiosi e politico-sociali, per non parlare degli accadimenti storici, su tutti la Peste del 1346. L’Artista medioevale aveva la funzione quasi “artigianale” di creare opere funzionali non semplicemente da ammirare: dovevano essere comunicazioni e descrizioni del presente, intrise del sentimento generale, utili a comprendere il momento da ogni tipo di classe sociale. Quello che amo di più è quando questo tipo di arte si impossessa del fatto storico e quasi perentoriamente lo trascina in un sentiero ricco di visionarietà, superstizione, credenze, luoghi comuni, lo riconduce senza sconti al feroce, volubile, fantasioso e impietoso linguaggio del popolo. Mi sembra un “innesco” creativo e moderno, più che mai attuale anche nel 2020.
Che rapporto ha con la morte?
Un ottimo rapporto. Non lo dico scherzando. Subisco una sincera dicotomia: da un lato le mille domande che temiamo morbosamente tipiche della materia ignota (quando sarà, perché, come, cosa succederà dopo, ecc), dall’altro le mille domande illuminanti che stimolano la nostra vita, tipiche della medesima materia ignota (che potrebbero essere, ovviamente, le stesse) e che, nel mio caso, sono fonte di creazione incessante. Siamo esseri mortali e l’unico modo di trovare un trait d’union col nostro peregrinare credo sia impossessarsi del concetto della propria mortalità. Ha senso convivere con la morte proprio perché, chiamando in causa De André “la morte non muore mai”.
Quali artisti secondo lei hanno meglio rappresentato la morte?
Ne potrei nominare tantissimi, specialmente tra quelli facilmente ritrovabili nella mia pittura. Ma mi sento di citare alcuni, a cavallo dei tempi e degli stili, tra quelli meno visibili nel mio lavoro, ma la cui influenza, è ugualmente fondamentale: Jacopo Ligozzi, Hans Baldung Grien, Alfred Kubin, Herbert Boeckl, Paul Delvaux.
I personaggi delle sue opere rappresentano vere e proprie storie in cui si percepisce l’intervento divino. Cos’è per lei la trascendenza?
Molto prosaicamente potrei rispondere che è la percezione determinante e necessaria per cui un avvenimento o, appunto, una storia rappresentata, trovi la sua reale spiegazione. In fondo tutti noi pensiamo, anche inconsciamente, che qualcosa della nostra vita capiti sempre al di là della nostra volontà, che sia immanente o trascendente non importa: è un sentimento umano. Ecco, credo che la trascendenza per me sia un potente sentimento umano.
Come vede l’arte sacra oggi?
Ne vedo una collocazione più estetica che funzionale. E sicuramente molto meno logica rispetto al senso che aveva quella di Beato Angelico o Duccio di Buoninsegna, giusto per fare un esempio. Io stesso, ogni qual volta mi avvicino al sacro lo faccio in una condizione inevitabilmente soggiogata dall’illustre tema pittorico. Credo fermamente che sia il compito dell’artista contemporaneo fare i conti con le precedenti scuole di pensiero e le derivanti tematiche. Nel mio caso il senso del sacro nei dipinti è essenziale tramandarlo come condizione intrinseca dell’uomo all’interno del suo cammino. Anche come personaggio all’interno di un quadro. In moltissima, enorme pittura trovo la sacralità non manifesta, anche quindi dove non dovrebbe esserci: basti pensare ad opere come Il 3 maggio 1808 di Goya.
Chi sono i vulnerabili miserabili nel mondo dell’arte contemporanea?
Sono presenze ingombranti che si trascinano all’interno di mondi che fanno propri, divorandoli dall’interno. Da de André passo a Gaber e dico che “farsi largo galleggiando” diventa per loro condizione imprescindibile. Migliaia di foto in posa con l’opera, di cosiddetti “work in progress”, di opere riprodotte in serie non per cifra stilistica ma per cifra economica, di tele bianche che aspettano di essere dipinte ma che, in qualche modo, per il solo fatto di essere posizionate in uno studio, devono comunque risultare “interessanti” agli occhi delle comunità social, sembra essere la modalità prima per diffondere arte oramai dovunque; ma la trovo frutto di una concezione di divulgazione artistica estremamente vulnerabile rispetto a quella di chi ci ha preceduto, e, spesso, la vulnerabilità porta a trovare il peggio di noi, traducendosi in una miserrima ed inutile esibizione. Una cosa è divulgare il proprio lavoro, un’altra è divulgare sé stessi.
Visto il suo passato da musicista, crede di tradurre le note in colori e figure? Riesce a esprimersi meglio nell’ambito artistico?
No, non credo di farlo. Anche se il rapporto tra la mia musica e i miei quadri è assolutamente stabile, l’unico collegamento reale è l’approccio alla materia. Come in musica la sperimentazione era il corpus dell’insieme, anche sulla tela lo sperimentare senza previsioni o disegni preparatori diventa il senso definitivo. Quindi, in un certo senso, essere stato musicista ha contribuito a farmi capire meglio la mia direzione pittorica.
Le sue opere sono sfuggenti, corpose, deformate, mortifere. È l’allegoria occidentale del nostro modo di vedere il Cristianesimo come una religione a cui si dà sempre meno importanza e che in fondo non dà fastidio?
Forse, da qualche parte, c’è dentro anche quello. Non solamente. Le mie pitture le vedo come imbuti capienti dove tutto quello che mi contagia trova fluidità e amalgama. Preconizzare la mia pittura è più importante quasi del dipingerla, in questo senso la mia testimonianza da contemporaneo si aggrappa al circostante (di ogni tipo e forma) per trascinarlo in questi imbuti e poterlo ricucire una volta uscito.
L’esposizione che l’ha emozionata di più e le ha dato consapevolezza del suo talento?
Più che del mio talento ho la consapevolezza di fare quello che mi piace e come più mi piace farlo. Mi interessa solamente capire dove tutto questo mi condurrà, nel bene o nel male. L’esposizione che mi ha coinvolto maggiormente, a oggi, è stata la mia ultima personale “L’invasione” a cura di Camillo Langone, negli incredibili spazi di The Bank Contemporary Art Collection a Bassano del Grappa. Emozionante non solo per la felice conclusione di un intensissimo periodo pittorico che ha portato alle opere esposte, ma anche e soprattutto per essere stato l’artista che ha inaugurato un grande e prezioso spazio che, in pochissimo tempo, è divenuto di importanza vitale per l’arte in Italia.
Impegni futuri?
Tanti e molto impegnativi. Sperando, tenuto conto dei tempi, di realizzarli il prima possibile.