Courtesy Collezione da Tiffany/Nicola Maggi
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Come nel mito platonico della Caverna, i personaggi che animano i dipinti di Sergio Padovani ci appaiono prigionieri delle apparenze, costretti a vivere in un mondo fatto di impressioni fugaci e di ombre scambiate per realtà. Un’allegoria dell’uomo contemporaneo che, troppo spesso, alla luce della ragione preferisce i riflessi di una realtà immaginata, virtuale. Ancora lungo il cammino perché qualcuno esca da quell’antro oscuro in cui ci siamo condannati a vivere. Attingendo a piene mani dall’immaginario visionario di artisti come Hieronymus Bosch, Goya e William Blake, Padovani dà vita a composizioni inquietanti; specchio di una condizione umana in cui la redenzione non sembra aver spazio. Una visione, quella di questo artista nato nel 1972, in cui trova compimento una ricerca nata nel campo della musica e poi approdata sulla tela solo nel 2006 in seguito ad una vera e propria illuminazione. «Ero a Parigi, in piena “crisi musicale” – mi racconta durante il nostro incontro – e ho visitato una mostra di Odilon Redon: pochi incredibili gesti su carta fissavano magistralmente tutto quel particolare coacervo di nozioni, influenze e strutture comunicative che cercavo da tempo con la musica. E’ bastata una sorta di incosciente alterigia a farmi credere di poter esprimere concetti, anche io, con quel mezzo. E da quel momento, nel bene e nel male del risultante, non ho più potuto farne a meno».

Sergio Padovani nel suo studio

N.M.: Quando ho visto, per la prima volta, i tuoi lavori mi è tornata in mente una frase di “Cecità” di Saramago: “A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo: ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. I personaggi che animano i tuoi dipinti mi sembrano molto vicini ai “ciechi che, pur vedendo, non vedono” dello scrittore portoghese…

S.P.: «Mi piace molto il tuo accostamento. Credo sia un difetto intrinseco dell’essere umano considerare la propria cecità inesistente quando, invece, “essere ciechi pur vedendo” sembra essere il “leitmotiv” dell’uomo, specialmente di quello contemporaneo. Di conseguenza, rappresentandolo, in qualche modo, anzi, nel mio modo, è più che condivisibile pensare che i soggetti nei miei quadri appartengano alla categoria suddetta: personaggi preda di un mondo a loro inadeguato che li affascina ed impietosamente li illude, che li rende desiderosi di appartenergli e nel quale si smarriscono, evitando di chiedersi se esistono altri “mondi”, altre condizioni più consone alla propria. Vivendo da ciechi che non credono di esserlo».

Sergio Padovani, Lo scorticamento degli eletti, 2013

N.M.: Una cosa che mi ha colpito dei tuoi dipinti è il loro essere quasi dei giganteschi condensatori, in cui si raccolgono, distillate in concrezioni bituminose, le correnti energetiche della tradizione culturale e della memoria sociale europea. In una parola potrei definirli quasi degli engrammi. Ci racconti qualcosa del tuo processo creativo?

S.P.: «Devo dire che, in effetti, c’è realmente l’engramma nel mio lavoro. Io non uso disegni preparatori, né foto, né elaborazioni digitali, né modelli… semplicemente inizio a dipingere sulla tela bianca secondo la mia tecnica di approccio all’immagine, senza un’idea predefinita se non quella di riuscire a riconoscere attraverso l’eventuale errore, o evento pittorico, la Forma. Ovviamente questo riconoscimento è influenzato e modificato da un agglomerato amorfo di stimoli, perfettamente identici a quelli che ognuno di noi riceve giornalmente: dalle preoccupazioni ai problemi, dalle letture che si sono fatte o che si fanno, dalle persone che si incontrano fino alla musica che si ascolta, alle piccole o grandi felicità e alle parole che ci fanno vibrare o disperare. In questo senso, nel momento in cui dipingo, sono “tracce mnemoniche”, residui mentali, del mio presente e del mio passato che si condensano in un’unica direzione che, poi, da me, deve essere “inquadrata” nel vero senso della parola. Per facilitare questa sorta di improvvisazione uso materiali grezzi e difficili da gestire, come bitume di giudea e resine antiche, accostati alla nobiltà dell’olio. Si può, dunque, stranamente affermare che impiego più tempo ad individuare il quadro che sto realizzando piuttosto che a dipingerlo».

Sergio Padovani, Grande rapimento in trionfo, 2013. Olio,bitume,resina su tela 120x80.

N.M.: Nero e Bianco. Bianco e Nero. Riflettendo sull’uso che fai di questi “colori” mi sono trovato a pensare che, in fondo, sono quasi degli equivalenti. Nella tradizione cinese e indiana, ad esempio, il bianco è il colore del lutto, della morte e dei fantasmi. Come per noi lo è il nero. E’ per questo che il passaggio dal nero al bianco, che è possibile registrare negli sfondi dei tuoi ultimi lavori, non sembra preludere ad alcuna possibilità di redenzione per le anime tragiche che affollano il tuo immaginario? Siamo ancora così lontani dal risvegliarci dal sonno della ragione?

S.P.: «Non ho mai dato grande importanza alla validità di un’opera a seconda del colore usato, ma bensì a seconda dell’uso del colore. Per spiegarmi meglio: nei miei quadri non ha importanza sapere se il soggetto indossa una maglia rossa o verde, ma se è svestito o no. Seguendo quest’idea/dogma ho sempre cercato di intuire quale fosse il modo migliore di creare un’atmosfera sensata per il mio quadro senza chiedermi il significato dei colori che usavo. Certo,verissimo che prediligo nero e bianco per la narrazione, che sono contrapposti e possiedono, quindi, universalmente, significati speculari o no alla vita ed alla morte ma è verissimo anche che, per me, il bianco equivale al nero (gli sfondi notturni della mia mostra “Eine kleine Nachtmusik” erano, infatti, tutti bianchi) e usarlo,dunque, non significa allontanarmi dalla percezione del mio immaginario, sfruttandone l’accezione, ma, in tutta onestà, esclusivamente utilizzare il tono giusto in funzione di quello che richiede la tela, in quel determinato momento, all’interno della mia ricerca pittorica. In ogni caso, nonostante nel mio lavoro si possa intravedere qualcosa che si può definire “redenzione”, è vero che, come dici tu, invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia e, infatti, rispondo con piacere alla tua domanda “goyesca”: sì, siamo ancora molto, molto lontani dal risvegliarci dal sonno della ragione».

Sergio Padovani, Tremula ribellione ultima alla psicostasia, 2013. Olio, bitume, resina su tela 100x70.