Si potrebbe cominciare a parlare di Sergio Padovani dal titolo della mostra La peste, dalle sensazioni o dai riferimenti storici, si potrebbe iniziare dal processo poietico, da un dettaglio di un quadro o dalla scelta dei loro nomi: la complessità del lavoro spinge la direzione ermeneutica in una ricerca che lascia aperte le vie dell’intuizione con concatenazioni pressoché infinite. Non si tratta di polisemia, né di discorso semiotico in sè per sè, non si tratta di leggere i segni sulla tela e di trovar loro una collocazione narrativa in grado di dare un senso al quadro, perché nella pittura di Padovani i riferimenti icastici sono ben riconoscibili, sebbene non mimetici nei confronti della realtà, e la superficie, con le sue apparenze formali, risulta chiara ed espressiva. Ma non basta vedere: le opere di Padovani chiedono, senza pretenderlo, il tempo: quello dell’approfondimento, della riflessione, della connessione, quello del “dopo intuizione” che conduce (forse) alla rivelazione: tempo, senza pretenderlo perché non è un obbligo è più che altro una necessità, la stessa dell’artista. L’approccio poietico non è dissimile da quello della fruizione e per cogliere a fondo il linguaggio è necessario sintonizzarsi sulla precisa volontà dell’artista che, mentre fa, ambisce all’apertura di senso determinando, con la sua intenzione, la poetica; emblematica in tal senso la dichiarazione dell’artista che, riferendosi al suo processo creativo, dice: “Mentre corro, se vedo la soluzione mi fermo e penso: ci possono essere altri percorsi?” Questa domanda rappresenta il quid di tutto il lavoro di Padovani segnando il focus e il fil rouge dell’evoluzione pittorica. Da questa interrogazione scaturisce l’urgenza di bloccare il pensiero in corsa con un atto noetico di riflessione che richiede un tempo di proroga nell’attuazione e nella capacità di agire creando un “hic et nunc” sospeso nell’istanza della risoluzione. La conseguenza dell’espressione irrisolta, e quindi non assoluta, dà vita alla molteplicità delle percezioni connotando i lavori in una dimensione straniante, allo stesso modo in cui il momento di sorpresa inconscia coglie l’artista di fronte alle opzioni del pensiero conducendolo sulle alternative dell’intellegibile con un’emanazione estesica prossima al clima del “Realismo Magico” novecentesco. La fusione tra coordinate meditate e immediatezza delle opzioni colte nel vago fluire delle possibilità induce a un attrito dinamico, non solo simbolico, che si posiziona a livello formale con un registro espressivo di ingranaggi, ruote dentate e “macchine semplici” come presenza ed effetto di una vita statica strutturata sull’inadeguatezza che coinvolge l’essere umano ma di cui l’uomo stesso è causa. Sergio Padovani mette in scena un sistema di concatenamento attivo, retroattivo e contagioso, esiziale come la peste nella rovinosa consunzione antropica che divora l’uomo nella sua condizione di individuo, sia essa una malattia in senso stretto o metaforico come la negazione, la profanazione etica, la rassegnazione o l’alienazione di fronte alle trasformazioni belliche.
Il riferimento culturale di Padovani è Paramirum (1531) trattato medico di Paracelso che approfondisce le ragioni dei processi morbosi giungendo a spiegarne il significato più profondo e le cinque modalità attraverso cui è possibile operare una terapia per ristabilire l’equilibrio necessario a riabilitare lo stato di salute. L’artista modenese prosegue idealmente l’indagine con una sua personale sesta interpretazione che identifica la fonte del malanno e della mancanza di isostasia nella presenza umana. “Chi è causa del suo mal pianga se stesso” esemplificherebbe un proverbio, ma al posto della responsabilità individuale Padovani mette a fuoco l’inadeguatezza totale dell’essere e la sua incapacità ad entrare in connubio con una realtà idealmente perfetta che, per definizione, è inarrivabile; è proprio quest’ossimoro che provoca l’aspirazione umana a costruire degli escamotages per spingersi oltre innescando la tensione, prima cerebrale poi degli strumenti o dei meccanismi, come le carrucole che alzano i personaggi da terra rendendoli estranei ma integrati al contesto. E sul contesto, ovvero sulla presenza del paesaggio, che segna l’evoluzione della pittura di Padovani con un cambiamento strutturale-concettuale rispetto ai cicli pittorici precedenti, va fatta una riflessione alla luce di quanto detto fin’ora: assegnare uno sfondo reale ai personaggi, non serve
solamente a dare asilo, ma significa “spargere” l’individuo sulla tela invadendola di umanità/disumanità con la stessa dinamica della peste che contagia nell’amalgama della congiunzione e che, diversamente, troverebbe la sua fine proprio nell’isolamento; il paesaggio diviene l’humus di trasmissione alla stessa maniera della concezione metafisica paracelsiana che vede l’universo come unità, sistema e organismo in cui le singole parti sono legate da rapporti di corrispondenza analogica.
L’obbiettivo di Sergio Padovani non è l’ammirazione fine a se stessa, nel viaggio tra conoscenza e comprensione uno sguardo fugace ai lavori non rapisce ma lascia comunque interdetti perché le opere sequestrano la soddisfazione e in qualche modo invitano a restare o a tornare sui quadri per riflettere, come la peste anch’essi contagiosi.
Alice Zannoni