Johann Heinrich Fussli – Incubo notturno – 1783 – olio su tela – 75,5x64cm – Freies Deutsches Hochstift Frankfurther Goethe-Museum
Sergio Padovani – Il nostro cielo è distorsione – 2011 – olio, acrilico e bitume su tela – 100x150cm – Courtesy dell’artista
Sergio Padovani – Carne mia traditrice – 2011 – olio, acrilico e bitume su tela 100x70cm – Courtesy dell’artista
Sergio Padovani – 2011 – Questo glorioso senso del rapimento divora – olio, acrilico e bitume su tela – 40x50cm – Courtesy dell’artista
Con tutti i rischi che si corrono nel delineare il clichè dell’artista straccione, è evidente che la produzione pittorica di Sergio Padovani incarna fedelmente il tipo del pittore intuitivo e sensitivo: anarchica e senza regole, con quei soggetti dichiaratamente alieni rispetto alla correttezza delle anatomie.
L’opera pittorica di Sergio Padovani è molto ispirta all’occhio interno di William Blake, l’occhio del subconscio, l’intravisione onirica che guida le forme confondendole e fondendole con gli sfondi – mai totalmente neri, mai totalmente bianchi – su cui i soggetti di Sergio Padovani STANNO, fissi e sussistenti come bocconcini archetipici che ci mettono in gioco come osservatori attivi, quasi invitandoci o trascinandoci – dipende dal nostro grado di tolleranza alla sindrome di Stendhal – nella realtà extra-fenomenica di quel mondo onirico che sempre ci portiamo appresso.
E in questo senso non possiamo non pensare a come starebbe bene la serie pittorica del Padovani in un ipotetico pantheon ex/post romantico in salsa svizzero/tedesca accanto a un Füseli, poniamo, ,senza con ciò stesso voler a tutti i costi irreggimentarne l’opera in una troppo stretta temperie culturale (è evidente che si tratta in entrambi i casi di libere visioni accomunate dalla sopravvenienza dei soggetti sul buio della notte, emergenti dal marcato contrasto fra i toni oscuri e i toni chiari dell’ordinamento dell’opera).
Un contrasto che non trova requie, anzi si potenzia ulteriormente, laddove è un diluvio di bianco a informare i personaggi, che in questi casi si stagliano con maggior nettezza rispetto a uno sfondo nero che comunque non è mai innocente, ma anzi contaminato dagli elementi eterogenei che affastellano la composizione nel suo insieme.
Ciò che è massimamente presente nelle opere al bianco dell’artista modenese. Si prenda ad esempio l’opera dal titolo Carne mia traditrice, contrassegnata dalla “gassosità” del palloncino sulla destra che, oltre ad assolvere a una funzione di simmetria – questo elemento infatti risolve la composizione sviluppando una linea a Y con la gamba del soggetto e la linea d’orizzonte realizzata a bitume -, è esso stesso sfondo lavorato che accompagna letteralmente il soggetto nel suo darsi in pasto all’osservatore.
Il Padovani ci dà a suo modo un Teorema d’Incompletezza come quello elaborato dal logico matematico Kurt Gödel, con la differenza che in questo caso l’indecidibilità non è fra due enunciati, ma chiama direttamente in causa noi osservatori del quadro: proprio perchè, per rifare il verso con licenza poetica ai maestri scultori, «lo sfondo vuole lavorato», i personaggi del Padovani sono sempre votati all’incompletezza.
Incompletezza, si badi bene, non solo fisica, ovviamente, ‘chè anche un cieco lo capirebbe guardando (ma veh!) i personaggi del Padovani. Si prenda infatti l’opera dal titolo Questo glorioso senso del rapimento divora, dove il soggetto soggetto al nostro arbitrio, quindi oggetto assoggettato al soggetto osservatore, consegna a quest’ultimo la possibilità di decidere liberamente sull’atteggiamento intenzionale del personaggio raffigurato: lo facciamo entrare o lo facciamo uscire dall’aiuola?
Opera al bianco e opera al nero, dicevamo. Dove il bianco è quasi più violento del nero. Non semplice sfondo, ma causa scatenante la perversione che si realizza fra questo e il soggetto dell’opera.
La nuova serie pittorica del Padovani è diversa e perversa. E, rispetto al recentissimo passato, caratterizzata dall’insistenza su una certa narrazione.
Inquietudine al cubo, domata da un mormorio di levità dei soggetti, fluttuanti in un lago di bianco o inchiodati al proscenio nero della notte senza fine, incompleti e abbandonati al nostro imperio. Fissi, si diceva, in un adesso immobile – “adesso immobile”: sinonimo di “eterno”, coniato nientemeno che dal diavolo in persona in tutt’altro contesto e in tutt’altra epoca -, fermi in un segmento spazio temporale dove intravedono un riscatto dal fondo del buio o dal bianco isolante.
La composizione sviluppa dunque, di contro alla fissità della raffigurazione, un certo movimento nello spazio – le opere del Padovani sono contraddittoriamente dinamiche. Gli sfondi sono quinte teatrali che accennano una narrazione possibile, come se improvvisamente, dietro all’impacciato attore di teatro, si affastellassero paesaggi e luci variegati.
Insomma, v’è altro rispetto alla semplice “datità”, al puro visibilismo di questi quadri.
Più che un Witkin, rispetto al quale l’opera del Padovani condivide certe suggestioni “corpografiche”1, un’euristica del soggetto che volesse applicarsi più o meno fedelmente all’iconografia del pittore modenese non potrebbe non prendere in considerazione la magnifiche armonie dell’interpretazione musicale (del resto, Padovani stesso è un musicista).
Il principio fondamentale di questa nuova serie pittorica si può infatti individuare in un senso di distorsione come griglia estetica dietro alla quale si cela un’aspirazione alla grazia, un po’ come l’appercezione delle progressioni armoniche che si sviluppano al di là di sonorità solo apparentemente vicine al rumore.
Quelli di Sergio Padovani sono dunque personaggi “impacciati” e “maldestri” che si addobbano per annunciare «non è tutto qui, c’è dell’altro in questo quadro», imitando la grazia nonostante – o forse in virtù di – ciò che essi stessi sono: intrinsecamente distorsione.
Un’intenzione di grazia che la letterarietà dei titoli delle opere sintetizza icasticamente come serie di percorsi che “imbarazzano” i soggetti tesi a questo fine.
Soggetti che possiamo idealizzare come sonorità grezze inclini alla limpidezza, senza con ciò stesso riuscire nell’impresa.
E anche in questo consiste la loro incompletezza. Rilanciando la palla, ça va sans dire, all’osservatore, al quale viene dunque riconosciuta quell’attitudine interattiva cara all’arte contemporanea che in questo caso consiste nella possibilità del completamento di una “storia” in pittura.
Emanuele Beluffi
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