Poche indecise pennellate su una tela sgombra di pensieri, vergine di emozioni. Membra spoglie dipinte e riesumate, l’orrido che prende forma nell’abominio d’uno scenario astratto ma reale. Ecco cos’è Sergio Padovani, giovanissimo artista del 72 dello scorso secolo. Rincorre il fine raggiungimento d’uno scopo quanto mai difficile da raggiungere: rappresentare una realtà in cui ogni personaggio è un protagonista alienato della propria quotidianità, dove le regole sono dettate dal grottesco mostro che si palesa nell’aspetto pacchiano e macabro d’ogni figura.
Un vello nero s’interpone tra l’opera e l’artista, creando quell’aria cupa, tetra, a volte truce. Malinconici e deformi corpi sorridono ad una realtà arcigna, fuggendo da essa e riparandosi in un mondo fittizio formato da pochi colori e sfumature. Nessuna figura è fine a sé stessa, nessuna vuole rappresentare solo l’esteriorità d’una decadenza intima e feroce, ma ognuno di queste si fa portatrice insana di paure, dubbi, incertezze, sofferenze protratte nel tempo; un gioco innocente di sguardi piatti, un amore troppo osceno per poter essere esposto e vissuto in un mondo conservatore, l’irrazionalità d’un sentimento vivo che arde di speranza melanconica .
Sergio Padovani, non un semplice maestro delle arti visive, ma bensì un poeta eccellente, mente di titoli dolci e crudi, dotati d’un macabro e disilluso romanticismo, titoli che formano un connubio perfetto tra immagine e parole, un amplesso di lettere e colori, una forte carezza per ogni animo sensibile. Una melodia che s’insinua sinuosa fra i sensi già ammaliati, resi partecipi dal tenue gioco dell’arte.
Ed è in opere come “Equilibrium delirium” che l’artista manifesta l’equilibrio precario d’una vita in bilico fra mente e cuore, efferata razionalità ed impulso incontrollabile, forte, passionale. Un uomo solo, all’apice di questo scontro titanico, fra palazzi scostanti, luci sconnesse di una città morente. Qui elementi decadenti si mescono ad uno stile più moderno, privo di artifici teorici, formando un quadro suggestivo e dinamico, lasciando quasi credere che i palazzi siano in procinto di crollare, come le certezze dell’uomo al centro dell’opera. Un bianco e nero magistrale, curato nei dettagli, nonostante la sua parvenza ai limiti dello sciatto.
Uno dei più chiari amplessi fra immagini e parole è invece proposto da “Due di un milione di corpi”; poesia per l’udito, una dolce malinconia, un vento debole ma penetrante, una realtà cruda difficile da accettare: lo stato d’assoluta solitudine in cui riversa ogni essere umano, ridotto ad essere uno fra i tanti, carne mista fra tanti altri corpi in movimento, magari più belli, più interessanti. Due figure dominano la scena d’un palcoscenico scuro ed irreale, rendendole fluttuanti; figure non ben definite in ogni loro parte, che lasciano trapelare la sofferenza dell’essere un nulla paragonate all’infinità dell’universo. Opera, diversamente dall’altra, permeata da una staticità che s’innesta prepotentemente, simbolo dell’impotenza dell’essere umano e dell’attesa passiva a cui viene sottoposto il singolo.
Ecco cos’è Padovani, un artista completo e complesso, che non si lascia sporcare ed inebriare dal vacuo torpore della superficialità d’una vita borghese e vuota di stimoli ed immaginazione.
Valentino Iovine